UNA MAMMA SENZA FIGLI- RACCONTO DI UNA DONNA

Si può essere mamma senza figli?

Quando mi sono sposata, era ovvio che io avrei avuto dei bambini. E poi che senso avrebbe avuto un matrimonio senza figli. Io e mio marito amiamo i bambini, io laureata in pedagogia e coordinatrice di un asilo nido …

E poi la casa, sì scegliemmo una casa con zone verdi vicine, tranquilla, con un vano in più … la chiamammo “la camera dell’erede”. Io sarei diventata mamma e proprio in quel preciso istante mi sentii MAMMA.

Il primo mese passò, e a questo ne susseguirono altri senza che il mio corpo compisse il miracolo della vita.

Non lo sapevo, ma avevo intrapreso un cammino verso un girone infernale che mi portava a dubitare di tutto e di tutti, a pensare che senza un figlio forse non avrebbe avuto senso neppure vivere.

Iniziammo il calvario al centro infertilità. Ora se ne parla in maniera più naturale dell’infertilità maschile, ma la mia generazione, viveva ancora di quello strascico socio-culturale, in cui se una coppia non proliferava, la “colpa” era della donna. Per tanto tempo ho dovuto fare i conti con questo termine “colpa”. Era sicuramente la mia.

Vi chiederete che ruolo ha avuto mio marito in tutto questo tempo.

A distanza di anni posso tranquillamente affermare che anche lui ha sofferto come me, che come me ha pianto, ma di nascosto per non aggiungere altra sofferenza alla mia. E ha raccolto liquido seminale ogni qualvolta veniva richiesto in laboratori sparsi sul territorio nazionale. E ha raccolto tutte le mie lacrime e la mia disperazione. Ma in quegli anni io non lo capivo. Il problema era mio, la sofferenza era la mia. Ero io che non riuscivo a diventare mamma, non lui.

Quindi io dovevo trovare delle soluzioni che mi portarono a perdere di vista 10 anni della mia vita. Vivevo i giorni che mi separavano da un ciclo all’altro in attesa, pronta a cogliere un segno nel mio corpo che poteva farmi capire se fosse arrivato il momento tanto atteso. Così come imparai a capire che anche quel mese non era accaduto nulla, il mio corpo mi avvisava con le sempre stesse modalità. E mi ritrovavo a elaborare quello che per me era un lutto, per poi riprendere il mio iter.

Nel frattempo mi convinsi che forse io non volevo veramente diventare mamma. Il mio desiderio era quello di sentirmi uguale alle altre donne, e non di volere effettivamente un figlio. Ma se effettivamente era così, che razza di donna ero? Ero cattiva? Egocentrica? Incapace di assumermi la responsabilità di crescere un figlio? La mia condizione di figlia unica non mi permetteva di accettare che la mia famiglia potesse togliere a me un po’ di affetto e di donarlo al nuovo arrivato? Avevo paura dei dolori del parto?

A tutte queste e altre domande trovai risposte che accrebbero ancor più i miei sensi di colpa.

I “tarli” di cui già prima accennavo, divennero veri e propri compagni invisibili, ma con voci potenti che urlavano sentenze, custodi di verità assolute, giudici implacabili in un continuo ed estenuante processo dove io ero l’imputato colpevole di ogni cosa, di quella cosa!

Feci così la conoscenza con la rabbia.

La mia impotenza nell’attesa di, si trasformò in rabbia. Una furia endogena, che non riuscii o non volli o non ebbi le capacità per portarla all’esterno e allontanarla da me. Anche lei ormai faceva parte di me.

Poi un giorno di metà novembre, il mio corpo mi trasmise dei segnali che non conoscevo. Aspettai un paio di giorni prima di consultare il ginecologo. Mi disse che si, sicuramente ero gravida e che avrei dovuto fare le analisi del sangue e poi ci saremo risentiti.

Uscii dallo studio medico e una volta arrivata in strada, non riuscii a fare altro che sedermi sul gradino del marciapiede e ammirare con una commozione infinita, la striscia stampata dell’ecografia, quella macchiolina era mio figlio. Non so quanto rimasi lì, mi sentivo così felice che il solo pensiero di muovermi mi portava a pensare che tutto sarebbe svanito. Due giorni dopo una fitta improvvisa e dolorosissima al basso ventre mise fine al mio sogno.

Ricominciai così la mia battaglia, a testa bassa, a braccetto con la mia rabbia.

In quel periodo poi, sembrò esserci una epidemia di donne con il pancione. In un solo giorno due mie amiche mi telefonarono annunciandomi la loro imminente maternità. Ripensandomi in quei giorni, mi vedo come raggomitolata su me stessa in un luogo buio, sola, dove a tratti qualcuno alza una botola facendo entrare un po’ di luce per poi richiuderla lasciandomi ai miei pensieri.

Non è facile, se non impossibile, sopportare uno stato di ansia e di aspettative poi puntualmente deluse, per periodi così lunghi. Io trovai forza nel rinchiudermi e non parlare con nessuno di cosa e di come mi sentivo. La mia rabbia ora aveva una compagna: la paura.

Un giorno la rabbia mi spingeva a vivere, il giorno dopo la paura mi obbligava a scappare a casa dove trovavo rifugio fra le mie cose, fra le braccia di mio marito che cercava inutilmente di calmare il mio pianto.

Cercare di spiegare di cosa avevo paura, anche a distanza di anni, non mi riesce. Come allora dico “di tutto e tutti”. La mia infertilità mi appariva come un mostro sovrano, i dottori i suoi soldati e gli esami spesso invasivi, gli strumenti di tortura e mi rivedo e mi risento sola a combattere un mostro con uno stuzzicadenti!

I sogni, i progetti che per tanti anni pianificai, si sgretolarono. Solo silenzio, solitudine, tristezza. La mia vita ne ebbi la certezza, avrebbe assunto queste caratteristiche. Fu come si alterasse la percezione del tempo: il presente non venne vissuto, il passato divenne il presente con il suo carico di dolore e il futuro non volli tenerlo in considerazione per il terrore di scoprire una realtà così distante da come desideravo.

La rabbia non funse più da motore trainante, solo la paura invase ogni angolo del mio corpo provocando dolore fisico. Non cercai di trovare rimedi per il mio stato di salute, la sofferenza, pensai, era la giusta condanna per essermi arresa.

Ogni aborto significava la morte di mio figlio e la mia impotenza affinché non accadesse. E il conseguente lutto. Le persone che sanno cosa mi è successo evitano di parlarmene. A distanza di tempo, capisco che affrontare un tema di questa portata non è facile, rischi di cadere in frasi di circostanza che stridono nel momento in cui le pronunci.

Ma io ho bisogno che qualcuno mi capisca, che sto vivendo il dolore di una perdita di un figlio che non ho messo al mondo, ma che ho tenuto anche se per un periodo breve, nella mia pancia, che era mio e che faceva parte di me in ogni angolo del mio corpo e della mia testa.

Ho la necessità che gli altri riconoscano che quello che sto vivendo è la morte di un figlio. Purtroppo pur riconoscendo questa mia necessità di elaborare il lutto, non possedevo gli strumenti utili, non fu data importanza a questo processo che se aiutata semplicemente ascoltandomi, avrebbe reso il mio e quello di mio marito, un cammino impervio sì, ma con la luce del sole, anziché in una notte senza luna. Nascondere o deviare questo dolore, mi fece cadere sempre più in un tunnel buio e senza fine dove a nessuno permisi di entrare o di farmi compagnia. Mi isolai sempre più.

A nulla valsero gli sforzi di mio marito per cercare di dare una parvenza di normalità alla nostra vita. Sempre più cercavo di isolarmi trascorrendo un giorno dopo l’altro nella speranza di potermi abituare ad una condizione che non avevo scelto, ma che quella era…

Una mamma senza figli.

 

Loredana Rabino

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